9 settembre 2010

0043 [SPECULAZIONE] Dialogo AILATI con Luca Molinari [4]

Luca Molinari non sarò io a porle le domande ma saranno 14 italiani tra architetti, scrittori, fotografi, politici e un muratore.
Sarà un dialogo tra lei e alcuni italiani.

Dialogo che sarà diviso in quattro parti: prima, seconda, terza

Antonie Manolova (Sofia): Un vuoto che rappresenta la crisi dell’architettura italiana

Simona Caleo (Roma): La migliore Italia

Stefano Mirti (Milano): Senza selezione, senza eleganza

Alessio Erioli (Bologna): Ecosistema informatico

Gianmaria Sforza (Milano): L’architettura a volume zero

Uto Pio (Facebook): L’ucronia per leggere il presente

Ettore Maria Mazzola (Roma): Tradizionale non concettuale

Alfredo Bucciante aka AlFb (Roma): Tornare normali

Giacomo Butté (Apolide asiatico): L’Italia di oggi

Mila Spicola (Palermo): Architettura democratica

Mahdy (muratore emiliano): In cantiere

Francesco Cingolani (Milano-Madrid-Parigi): Spazio reale virtuale

Rossella Ferorelli (Bari): Accademia

Louis Kruger (Bari): Qual è l’architettura italiana

Mahdy: È un immigrato regolare Egiziano, in Italia già da diversi anni. Vive e lavora al confine tra il Reggiano e il Modenese. Ha imparato il mestiere di muratore in Italia. Dopo quasi quattro anni di clandestinità, a febbraio del 2010, ha ottenuto i documenti necessari per l'emigrazione regolare in Italia. Se tutto va bene, tra circa 10 anni sarà un nuovo cittadino Italiano.

Perché gli architetti non testano direttamente, con le proprie mani, come si posano in opera i materiali innovativi e sperimentali, in modo da accorciare la catena dei miglioramenti, sia di posa che di resa e risultato?

- Luca Molinari Sono totalmente d’accordo, aggiungerei una cosa, che gli architetti dovrebbero tornare qualche anno dopo a visitare con attenzione i luoghi che hanno progettato per capire come sono stati accolti e trasformati da chi li abita e, magari, imparare qualche cosa in più! 

Francesco Cingolani: 31 anni, architetto. Collabora con lo studio Ecosistema Urbano di Madrid e lo studio HDA | Hugh Dutton Associés di Parigi. Si occupa prevalentemente di architettura parametrica, innovazione tecnologica e comunicazione. Ha fondato il progetto Meipi (cartografia digitale partecipativa) e i gruppi di ricerca architettonica e urbanistica imaginario e Thinkark."

Negli ultimi dieci o venti anni, i vari ambiti delle nostre vite sono stati fortemente caratterizzati dal fenomeno della virtualizzazione.
Questo potrebbe superficialmente portare a credere in una devalorizzazione e una perdita di significati dello spazio fisico (che a me sembra opportuno definire spazio presenziale, in opposizione allo spazio virtuale).
Un'analisi più attenta sembra invece suggerire una necessità di redefinizione della realtà fisica e sensoriale, e del suo rapporto con la virtualità.
Se consideriamo che l'architettura è la disciplina che struttura e modella il mondo fisico nel quale viviamo, quale dovrebbe essere la sua reazione, nel presente e nel futuro, a questo slittamento di significati?


- LM Ho l’impressione che dopo la prima fase di eccitazione digitale la relazione tra progetto e strumenti per renderlo possibile si sia molto evoluta. Altro discorso meriterebbe invece la nozione di spazio pubblico e il confine sempre più fluido tra pubblico e privato in cui l’esperienza digitale ha un peso molto importante e di trasformazione radicale della nostra esperienza quotidiana.

Rossella Ferorelliblogger barese, laureanda in Ingegneria Edile - Architettura con una tesi sull'origine linguistica dello spazio - appassionata di scienze cognitive e interessata al futuro in tutte le sue forme.

In occasione di una visita al Politecnico di Bari di Boris Podrecca di qualche tempo fa, ricordo di aver riesumato una intervista dell'architetto per Repubblica del maggio 2006 il cui epilogo mi aveva raggelato: «Rispetto ai giovani italiani che vengono nel mio atelier, i coetanei olandesi o svizzeri hanno più verve, ironia e immaginazione. Da voi ci sono tanti professorini, con pochi progetti realizzati ma molte chiacchiere e presenze alle mostre; vivono l’architettura attraverso le riviste, non ne conoscono a fondo le problematiche». Questa l’opinione dell’architetto austriaco, che individuava l’origine del problema «nel fatto d’aver perso due generazioni, dopo il ’68. Avete scritto libri, e sapete tutto sul Palladio o Giulio Romano, ma non come si mette una finestra».
Vorrei dunque proporle una riflessione sull’ambito teorico dell’architettura in generale, ed in particolare in Italia. Come è possibile, infatti, che il problema della generale depressione del settore sia quello individuato da Podrecca, se nemmeno nel campo della ricerca teorica (distinguendo nettamente questo dall’ambito storico) alcunché di memorabile viene effettivamente prodotto nel nostro paese da anni?
Personalmente le propongo, perché la possa mettere in discussione, una lettura del problema che individui un bagliore risolutivo nella necessità di un riaggancio tra vera teoria (cioè teoria “hardware”, delle basi filosofiche, scientifiche e politiche che stanno dietro alla funzione sociale dell’architetto), e progettazione, e vorrei a questo proposito chiederle che funzione possa ancora avere un’istituzione come la Biennale di Venezia nella spinta alla soluzione delle tare architetturali del pianeta Italia. In particolare, come studentessa, le chiedo inoltre di sbilanciarsi in una riflessione sull’ambito accademico e sui rapporti attuali e possibili tra questo e la Biennale nell’ottica di una più continua e costante tensione alla ricerca sul futuro, che non rincorra solo le vetrine dei vari festival che sono in preoccupante via di moltiplicazione.
 

- LM Il problema della produzione teorica nell’ambito dell’architettura contemporanea è serio ma forse dovremmo cambiare prospettiva. Forse non è più tempo di grandi narrazioni teoriche, dei volumi decisivi che spostavano i baricentri tematici, forse il sistema carsico e frammentario dei blogger contemporanei sta modificando il nostro modo di produrre e scambiare teoria in architettura. Insieme credo che la cultura architettonica debba fare uno sforzo diverso, cercare in un mondo che sta cambiando radicalmente e drammaticamente le parole, gli stimoli e le risorse per ridefinire confini disciplinari e elementi per rielaborazioni teoriche. Per quanto riguarda l’università non ho alcun problema a dire che la maggior parte del sistema universitario italiano è inadatto ad affrontare la situazione attuale e soprattutto a portare al suo interno quegli elementi vitali, virali e critici di cui ci sarebbe molto bisogno per combattere un irrigidimento culturale e una sindrome d’accerchiamento che l’università deve abbandonare per non morire. 

Louis Kruger: architetto italiano di origine sudafricana. Vive ad Adelfia, vicino Bari. 

Mi chiedo se la Biennale, come vetrina mediatica, consolidi solo sempre di più quel confine (i boundaries di Sejima) tra l’architettura e l’edilizia, come un ulteriore cuneo che aumenta la distanza tra l’architetto e la gente comune.
E, quindi, le chiedo se il linguaggio adottato per il Padiglione Italia, è sempre più comprensibile solo per gli addetti ai lavori e meno incline al dialogo collettivo?

- LM Ho voluto una mostra semplice e corale, densa nei contenuti ma libera di essere vissuta e attraversata da chiunque. Se riusciremo in questo obbiettivo così complesso potrò dirmi felice come curatore di questo Padiglione.

9 settembre 2010
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7 commenti:

  1. Fra tutte le domande poste (alcune abbastanza bolse e scontate a mio modesto parere) penso che quella di Rossella colga in pieno il problema.
    Ho avuto la (s)fortuna di conoscere tanti architetti, provenienti dalle più svariate facoltà italiane (ma anche ingegneri dedicatisi poi all' "architettonico") e quello che ho potuto notare è una generalizzata noncuranza ed ignoranza verso quelle che dovrebbero essere le "basi" della professione, cioè la conoscenza di materiali e tecniche.
    Ovviamente esistono diverse eccezioni, sia come facoltà (fra cui mi sento di citare la facoltà di architettura di Ferrara) che come professionisti.
    Questa grossa pecca credo sia da imputare prevalentemente alla scarsa cultura architettonica italiana (è vero, siamo la patria di Palladio e Michelangelo, ma sembra che questo retaggio sia servito a poco) che si riflette in un percorso formativo (universitario e lavorativo) molto carente.
    Mi ricordo che agli esami di Composizione cercavo sempre di realizzare progetti di cui io stesso riuscivo ad eseguire il calcolo di massima di strutture ed impianti; poi c'erano i fenomeni che portavano "nuvole" fuksasiane di vetro e metallo.Come stavano su?
    Boh?!?
    30 e lode!

    Matteo Seraceni

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  2. ---> Matteo,
    perfetto.
    Io mi sono stancato delle analisi.
    Mi chiedo come ricostruire quest’Italia senza più solidità strutturale?
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  3. 1° report facebook (selezione commenti)

    [A proposito della domanda di Mahdy]

    Italo Boccafogli:
    Gli architetti non devono imparare a posare nulla. Ad ognuno il proprio mestiere. Bene vivere il cantiere e apprendere le fasi del processo edilizio, ma con il proprio ruolo, per conoscere e capire il ruolo degli altri attori in gioco e comprendere quali relazioni siano convenienti al miglioramento del prodotto finale.


    Salvatore D'Agostino:
    Italo,
    mi piace la risposta di Luca Molinari: Sono totalmente d’accordo, aggiungerei una cosa, che gli architetti dovrebbero tornare qualche anno dopo a visitare con attenzione i luoghi che hanno progettato per capire come sono stati accolti e trasformati da chi li abita e, magari, imparare qualche cosa in più!

    Italo Boccafogli:
    Un architetto dovrà indicare soluzioni ad altri che a loro volta indicheranno soluzioni nell'ambito delle specifiche competenze. L'osservazione "perchè gli architetti non testano direttamente ..." è pericolosa perchè prefigura un architetto che sa tutto. Il processo edilizio è viceversa tanto e sempre più complesso da richiedere a qualcuno, forse proprio all'architetto, una visione generale che è fatta, all'inizio, di inserimento nel processo, esattamente per capire il ruolo dei diversi attori ed apprendere come coordinarli. L'archiTUTTETTO, se questo è il pensiero proposto, sarebbe la sconfitta del ruolo e del buon costruire.

    Salvatore D'Agostino:
    Italo,
    Francesco Merlo pensa che l’Italia sia distrutta dai Fantuttoni.
    Ma in questo caso sia la domanda che la risposta rivelano due questioni.:

    PRIMO
    Una certa improvvisazione nella cura in cantiere del processo costruttivo.

    SECONDO
    Una valutazione a posteriori sulle proprie opere da parti dei progettisti, presumibilmente critica.

    Saluti,
    SD

    Italo Boccafogli:
    Sono interessato e continuo. Va tutto bene. Va bene sapere molte cose prima (è meglio) e va bene criticare il dopo. Ciò che vorrei è che ci fosse la consapevolezza della complessità della specifica attività che prevede inevitabilmente molte competenze non sostituibili. E comunque, come ho già scritto all'inizio del nostro scambio di opinioni, ritengo che la figura di sintesi, ora mancante, sarebbe l'impresa. Lì il progetto arrivava, un tempo, veniva criticato, veniva prodotto un esecutivo sintesi delle competenze necessarie, veniva valutato nei metodi produttivi, nei costi. E doveva essere garantito, nella sua qualità complessiva. Nessun architetto può pensare di farcela, al giorno d'oggi. Questo è il tempo dei buoni progetti di carta, sulla carta. Ciao.

    Salvatore D'Agostino:
    Italo,
    semplicemente non condivido.
    Questo è il tempo della massima espressione della supponenza dell’architettura dei ‘furbi’ con l’epilogo dell’architettura ‘iconica’.

    Italo Boccafogli:
    Ho scritto tanto senza spiegarmi. Peccato. Desideravo riproporre che sento la mancanza, al centro del processo dell'architettura, della capacità nel produrre (l'impresa) senza la quale molti obiettivi di qualità sono interdetti indipendentemente dalla qualità delle altre competenze, architetti inclusi. Il crollo della attitudine a produrre è la carenza di questi anni, in ogni settore di attività. Ciao e comunque grazie.

    Salvatore D'Agostino:
    Italo,
    ecco detto così semplice e asciutto condivido il tuo pensiero.
    Non condivido le frasi definitive come: Questo è il tempo dei buoni progetti
    di carta, sulla carta.
    Ciao

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  4. Salvatore, guarda che anch'io sono d'accordo con Italo per quanto riguarda l'impresa: è ora di smetterla con operatori incompetenti.
    Non si comprende il motivo per cui si richiedono sempre più competenze e specializzazioni in tutti i campi e poi anche il più cretino dei cretini mette su la propria impresa edile.
    Perchè non cominciamo a mettere dei bei paletti e a richiedere che ogni impresa sia dotata di figure competenti, capaci di indirizzare e coordinare il lavoro dei progettisti?

    Sugli architetti non sono invece d'accordo.
    Come detto sopra, c'è una complessità sempre maggiore nei problemi affrontati e questo porta a richiedere competenze e conoscenze maggiori: progettare senza sapere cosa è una finestra o un mattone mi sembra assurdo, figuriamoci progettare senza sapere nulla di strutture o requisiti ambientali!

    Matteo

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  5. ---> Matteo,
    condivido ciò che dici.
    In un commento a Italo dicevo: Questo è il tempo della massima espressione della supponenza dell’architettura dei ‘furbi’ con l’epilogo dell’architettura ‘iconica’.

    Unendo (grossolanamente) le due metastasi italiane l’edilizia del profitto (senza nessuna valutazione sulla qualità) e l’architettura degli effetti (appunto iconica con la variante tutta italiana del sindaco/politico protagonista).

    In un vecchio post http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2010/02/0038-speculazione-il-ddl-1865-e-lo.html
    Proponevo:

    Non voglio finire con una geremiade, sappiamo bene che non serve a niente ti propongo alcuni spunti di riflessione:

    • abolire gli istituti tecnici per geometri com'è avvenuto per gli istituti magistrali, da qualche anno per insegnare nelle scuole primarie occorre la laurea, in modo tale che tra 70 anni la figura del geometra - nata per esigenze che adesso non ci sono più - scompaia;
    • prevedere per tutti gli edifici di carattere pubblico (comprese le costruzioni private) un processo progettuale e tecnico sinergico tra ingegnere e architetto, chiarendo le competenze di ciascuno ed eliminando le mille lauree specialistiche che alimentano una confusione di competenze;
    • ritornare a occuparsi di città e rivedere le leggi urbanistiche eliminando dal vocabolario le parole ‘centro storico’ e ‘periferia’;
    • eliminare la discrezionalità politica sugli affidamenti degli incarichi ‘pubblici’.

    Saluti,
    Salvatore

    RispondiElimina
  6. Sono ancora una volta d'accordo con Salvatore.
    Sono geometra, ma studio architettura perché il diploma non mi bastava, perché per quello che avevo intenzione di fare, le competenze che avevo non mi sembravano e non mi sembrano adeguate. Da geometra dico che è necessario abolire gli istituti tecnici, almeno come li conosciamo oggi. C'è maggiore necessità di avere tecnici specializzati nelle industrie di settore rispetto ai presunti professionisti della modesta entità e chi lo dice lo fa ben conscio del fatto che una volta credeva che questo (la modesta entità) bastasse. Lo credeva perché faceva parte del "sistema" delle cose definitive, dei pilastri a quattro ferri calcolati con le tensioni ammissibili (oddio, anche architetti ed ingegneri lo hanno fatto fino a che la legge, finalmente, ha posto il giusto freno), dei tompagni di blocchi forati. Ho però avuto la fortuna di lavorare non soltanto in studio (non ho mai svolto la professione per altri motivi...), ma anche in cantiere e di seguire il lavoro di più DL. Secondo il mio modesto parere, non esistono progetti di carta e di questa soltanto. La progettazione è solo la prima parte di un sistema complesso, già presentato nei commenti precedenti, la cui vita non è legata all'edificio, ma va ben oltre. Ecco perché l'architetto non solo deve sapere come si disegna una finestra, ma deve anche vedere non solo come si monta, ma anche come nascono i semilavorati e come questi vengono assemblati. Altrimenti cadrebbero nel vuoto le raccomandazioni alla qualità in architettura, alla scelta dei materiali che in architettura sono la parte principale, almeno la più "compromessa" con la progettazione, altrimenti si ritornerebbe ad Alberti, che pure conosceva i suoi polli, con la differenza che non tutti sono in grado di scrivere trattati o indicare "a voce" alla "Rossellino s.n.c." di turno come costruire una facciata.
    Non dimentichiamoci che un buon edificio non è soltanto il risultato di un buon progetto, ma anche di un'ottima realizzazione e questa non la si deve soltanto alla necessaria capacità dell'impresa. L'ideale sarebbe che il progettista fosse chiamato anche a svolgere la DL, non solo per intascare più soldi in parcella.
    Concordo con Matteo per quanto riguarda le università. Benché esistano dei corsi tecnologici, questi vengono troppo spesso bellamente snobbati nella composizione architettonica. E' per questo motivo che i miei colleghi di gruppo non riescono a comprendere perché contesti il nostro 30 e lode per quell'edificio con un ballatoio di 1,80 x 64,00 m (sic) ed appartamenti senza cessi con doppia pelle e controfacciata (che però si sa come verrà montata). Ed ho parlato solo del "mio" edificio. A parziale discolpa c'è il fatto che eravamo al secondo anno, ma senza guida o comunque, senza stimolo alla ricerca (che ho dovuto fare da solo), non è che le cose vengano bene. Infatti, il laboratorio del IV anno è stato molto più complesso perché il docente ha preteso da noi che conoscessimo ogni angolo del nostro progetto, che ogni elemento fosse non solo bello, ma soprattutto fattibile, voleva i riferimenti al prodotto industriale, i disegni, i nomi dei designer e delle industrie, gli spaccati architettonici ed i particolari. Eravamo tutti in difficoltà perché mai avevamo incontrato un corso del genere e tutto sommato abbiamo imparato qualcosa o quantomeno siamo in grado di comprendere una parte infinitesima della complessità progettuale.
    Il fatto è che io so che non va bene questo sistema, ma come dico sempre, non faccio testo, ho 34 anni e provengo dal cantiere e certe cose le conosco perché le ho viste altrove. Gli architetti dovrebbero sporcarsi di più le scarpe in cantiere.
    Concludo dicendo che ritengo assurdo che per "mettere timbro e firma" ci vogliano una ventina d'anni di studio, mentre per mettere pietra su pietra, serva soltanto una marca da bollo...

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  7. ---> Spirito Libero,
    Si! Ci troviamo di fronte le macerie di una nazione che ha avuto nel cemento la sua corsa all’oro.
    Facendo tabula rasa.
    In queste macerie siamo cresciuti noi.
    Quelle macerie non sono squallidi luoghi ameni ma luoghi dell’identità delle nuove generazioni d’italiani.
    Semplicemente, sulla professione e sul processo edilizio, c’è molto da fare a 360 gradi.
    Sta a noi cercare di superare le analisi.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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