20 febbraio 2012

0056 [MONDOBLOG] La posizione zeviana secondo Sandro Lazier

di Salvatore D'Agostino

Nel post precedente* anticipando questo colloquio avevo scrittoNon so se Bruno Zevi, morto il nove gennaio del 2000, un po' prima dell'avvento della penetrazione capillare del Web, oggi avrebbe gestito un Web Log, ma penso che si sarebbe inventato una strategia comunicativa per la rete. 

Francesco Cirillo nei commenti a tal proposito ha ricordato un aneddoto:
«Se vuoi una mia risposta al tuo quesito, in base alla mia esperienza vissuta con lui, posso dirti che sicuramente avrebbe costituito un blog sul web. Ricordo che quando decisi di conoscerlo gli feci una ventina di telefonate senza mai riuscire a parlargli, la sua segretaria mi disse: “provi a scrivergli una lettera lui le risponderà sicuramente... anzi se possiede un fax meglio ancora, adora questo strumento perché è veloce e immediato”. Pensa cosa sarebbe riuscito a creare sul web, poter sfruttare la planetarietà in un istante, avrebbe potuto dire la sua in qualsiasi istante e irrompere con la sua prorompenza.»
A seguire la prima delle due interviste agli artefici di antiTHeSi: Sandro Lazier.






Salvatore D'Agostino Il 28 febbraio 2000* è stato scritto il primo articolo su antiTHeSi. 
Da una vecchia fonte Web - oggi non più visibile - era descritta così:
«Nasce «Antithesi», una webzine di critica dell’architettura, voce alternativa alle riflessioni e ai dibattiti contemporanei. Il progetto editoriale prevede tematiche, articoli e rubriche.»1
Perché nasce antiTHeSi?

Sandro Lazier L’idea di pubblicare testi di critica dell’architettura nasce prima di questa data, raccogliendo una serie di articoli di Paolo G.L. Ferrara e miei che erano apparsi, sull’onda della New Economy, su un portale diffuso su internet. Tra le varie sezioni, se ne prevedeva una per l’architettura, che ebbe scarsi risultati. Nel gennaio 2000, questi articoli di critica dell'architettura trovavano nuova collocazione in antiTHeSi, un sito specifico dedicato allo scopo.
AntiTHeSi nasce dalla possibilità, soprattutto economica, di potersi emancipare dalle sponsorizzazioni pubblicitarie che soffocano le tradizionali riviste d’architettura, ovviamente condizionandone la libertà di giudizio. Il suo scopo è di favorire lo scambio culturale e, in particolare, il confronto delle idee. Partendo dichiaratamente da una posizione zeviana.

Da dove deriva il nome antiTHeSi? 

Dalla classica dialettica hegeliana dove l’antitesi dovrebbe sempre determinare una sintesi, cosa che in realtà avviene raramente. Quasi sempre l'esito della dialettica si risolve in un compromesso. 

Perché l’h? 

Il dominio antitesi era già registrato per cui aggiungendo l’h s'è trovato lo spazio libero. 

Il nome è frutto di un incespicare nella rete. 

Sì. 
L’antitesi, nella dialettica classica, si pone contro qualsiasi tesi. Noi crediamo che non vi siano regole per l’architettura e tutte quelle teorie che contengono regole per noi siano sbagliate. Zevi aveva proposto delle regole per leggere l’architettura, non sicuramente per scriverla. Questo è il punto chiave del nostro atteggiamento. Noi non proponiamo teorie ma mettiamo in discussione quelle che ci sono, perché secondo noi tutte le teorie, in architettura, hanno grossi limiti teorici.
«Manca alla nostra critica spregiudicatezza e coraggio. Abbondano i filologi e i conoscitori, ma scarseggiano i critici e perciò prevale il conformismo, l’ossequio per i giudizi formati e autorevoli, l’analisi fredda, evasiva, inarticolata aliena dal rivivere l’impeto dell’immaginazione creatrice.»2 Bruno Zevi
Che significa osservare l’architettura da una posizione zeviana?

Il testo forte e critico di Zevi s'inserisce nell'ambito della linguistica perché tratta l'architettura come un linguaggio. Zevi è figlio del suo tempo, nel senso che è nella seconda metà del secolo scorso che si sviluppa il pensiero sulla linguistica. Zevi adotta questa parte teorica della filosofia e la usa per leggere l'architettura. Zevi, come critico, intende leggere l'architettura. Non legge la teoria dell'architettura ma l'architettura, quindi si pone dal punto di vista critico operativo. La formazione zeviana è fondamentalmente crociana: l'estetica, che è l'arte nella sua totale autonomia, conquista un valore etico indipendente grazie all'autorità che le conferisce tale condizione. Quello che si traduce in estetica, alla fine, ha delle conseguenze etiche. Se si riesce, per paradosso, a rendere estetico un luogo degradato e si rivaluta sul piano etico di conseguenza, sarà socialmente apprezzato. Questo noi l'abbiamo conosciuto in tutte le manifestazioni della cultura. Diciamo che tradurre in architettura il disagio, o tutto ciò che non è conformato, è l'anticlassicismo in cui credeva Zevi. Zevi aveva definito la modernità prendendo in prestito una frase di Jean Baudrillard: la modernità non è nient'altro che trasformare la crisi in valore. Tutto ciò che diventa crisi per la società e che si trasforma e diventa valore ha a che fare con la modernità. Questo pensiero, se ci si pensa bene, è anche profondamente crociano.
L'insegnamento zeviano è quindi quello di combattere qualsiasi forma di classicismo. Classicismo vuol dire soprattutto accademia, vuol dire sistema, vuol dire pacchetto di regole da poter insegnare e tramandare. Questo, per Zevi, non è architettura. L'architettura non è l'armonia ma la disarmonia, il rifiuto che può diventare accoglienza, è un insegnamento di tolleranza. Zevi diceva che l'architettura, soprattutto l'architettura moderna e l'arte contemporanea in genere, allenano la tolleranza.
La nostra posizione è profondamente legata a questo principio.


Il pensiero di Manfredo Tafuri è difficilmente sintetizzabile, cito un passo tratto dal suo libro 'La sfera e il labirinto' del 1980:
«Studiare come un linguaggio «agisce» significa verificare la sua incidenza su tutte le singole sfere extralinguistiche ottenute con la «disseminazione» dell’opera. A questo punto, saremo di fronte a due alternative. O, seguendo Barthes e la nouvelle critique, ci adopereremo a moltiplicare le metafore del testo architettonico, sdoppiandone e variandone all’infinito le «valenze libere», il suo specifico «sistema di ambiguità» o ricorreremo a fattori esterni all’opera, estranei alla sua costruzione apparente.
Entrambi le strade sono legittime: dipende solo dai fini che ci si propone. Potrò scegliere di calarmi in quello che abbiamo definito il cerchio magico del linguaggio trasformandolo in un pozzo senza fondo: è quello che la cosiddetta «critica operativa» ha fatto da tempo servendo, come vivande di pronto consumo, i suoi arbitrari e pirotecnici sdoppiamenti di Michelangelo, Borromini o Wright. Ma così facendo, dobbiamo aver ben chiaro che il mio obiettivo non è fare storia, bensì dar forma a uno spazio neutro, in cui far galleggiare, al di sopra del tempo, una congerie di metafore prive di spessore. A esso, non dovrò chiedere che di affascinarmi, di essere piacevolmente ingannato.
In caso contrario, dovrò misurare l’incidenza reale del linguaggio sulle serie extralinguistiche alle quali esso si connette. Dovrò cioè misurare in che modo l’introduzione di una concezione misurabile dello spazio figurativo reagisce a contatto della crisi della borghesia rinascimentale;
in che modo la disgregazione del concetto di forma risponda al formarsi del nuovo universo metropolitano;
in che modo l’ideologia di un’architettura ridotta a «oggetto trascurabile», a mera tipologia, a progetto di riorganizzazione dell’industria edilizia, si inserisca in una reale prospettiva di gestione «alternativa» della città.
L’intreccio di lavoro intellettuale e di condizioni produttive offrirà, in tal caso, un valido parametro per ricomporre il mosaico dei pezzi risultanti dallo smontaggio analitico precedentemente compiuto. Far rientrare la storia dell’architettura nell’ambito di una storia della divisone sociale del lavoro non significa affatto regredire a un «marxismo volgare»: non significa affatto cancellare le caratteristiche specifiche dell’architettura stessa. Anzi, queste ultime andranno esaltate mediante una lettura capace di collocare – sulla base di parametri verificabili – il reale significato delle scelte progettuali nella dinamica delle trasformazioni produttive che esse mettono in moto, che esse ritardano, che esse tentano di impedire.»3
Il pensiero di Tafuri è sostanzialmente marxista, materialista. Dire che la critica operativa in qualche modo crea delle metafore, non è giusto nemmeno per uno storico.
La critica operativa è una cosa diversa da un'invenzione, come, invece, sostiene Tafuri.
La critica operativa zeviana è una conoscenza profonda della storia vista con gli occhi del presente. Il pensiero storico del novecento segue le ideologie del novecento e scrive e legge la storia con gli occhiali del novecento. C'è che sa d'averli sul naso e chi lo ignora. In questo periodo, che è il periodo della mia formazione culturale, l'idea di progresso è vista nel senso della sostituzione: ciò che verrà dopo sarà comunque meglio e sostituirà in tutto quello che c'era prima.
Se c'è una cosa che ci ha insegnato l'informatica, è che il computer non ragiona per sostituzione ma per integrazione. Chi usa la rete sa bene che tutto è sempre presente. La memoria è continuamente sovralimentata, non sedimentata. Se io ho scritto un articolo nel 1990 e quest'articolo è in rete, lo posso fare rivivere continuamente. Quel testo è continuamente presente se richiamato nel link di un ipertesto.
Nessuna architettura, secondo questa nuova concezione della storia, può sostituirsi a una precedente, ma può solo ampliarne la dotazione, come una grande palla che continua a gonfiarsi e contiene tutto, significati e significanti compresi. Oggi noi siamo in un mondo, dove c'è chi vive ancora nel medioevo, c'è chi vive nella preistoria, chi nell'ottocento e chi nel futuro o nel futuribile. Il che non è: "...far galleggiare, al di sopra del tempo, una congerie di metafore prive di spessore."
Solo la rete ti consente di creare una comunicazione unica in cui la coscienza è presente in tutti. L'idea di sostituzione non funziona più, mentre resta ancora valida l'idea zeviana di storia che è continuamente attuale ed è continuamente portata al presente. Noi non riusciamo a leggere la storia se non con gli occhi del presente. Non riusciamo a scrivere un'altra storia diversa da quella che guardiamo con i nostri occhi.
Secondo me, tutto il pensiero di Tafuri è legato a un periodo, a un'ideologia che vedeva il progresso non come integrazione del passato ma come sostituzione a esso, per cui aveva bisogno degli argomenti del marxismo e del materialismo storico. Bisogna considerare la storia non come qualcosa da superare, ma qualcosa da integrare, senza uccidere nessuno. Rispetto a Tafuri, un cambio di prospettiva totale.


Il nuovo direttore di Domus Joseph Grima, ha anticipato il suo primo numero cartaceo (ndr n. 946), organizzando, a scala mondiale, dei dibattiti sullo stato attuale della critica chiamati Critical futures. Un dibattito, non solo tra critici ma aperto a scrittori, blogger e ricercatori e dilazionato in tre appuntamenti in tre diverse città Londra, Milano e New York.
Nel primo appuntamento londinese (ndr 13 gennaio 2011*) Beatrice Galilee osservava come, grazie allo stream continuo di immagini patinate di architettura, molti blog o siti di architettura abbiano ottenuto un successo importante di accessi. Per Beatrice Galilee quest’uso virale della fotografia è simile alla pornografia, in questo caso puro atto prestazionale architettonico.

Su questo concordo in pieno, purtroppo non tanto internet quanto le riviste tradizionali sono diventate solo dei contenitori che raramente fanno critica. Per gli architetti l'importate è essere pubblicati. Dopo di che, se uno è pubblicato su riviste di un certo interesse o importanza storica, già questo è sufficiente, già c'è il messaggio critico, nel senso che ci sei, l'importante è esserci.
Un altro aspetto importante è come sono pubblicate le architetture! Spesso c'è un'esaltazione morbosa dei particolari. La pornografia non è l'atto sessuale proposto in modo volgare, ma è nella ricerca del dettaglio esasperato che si diventa pornografi. Le riviste di architettura danno sempre meno credito a piante, sezioni e concetti che darebbero l'idea della spazialità, mentre sono sempre più ricche d'immagini al limite, appunto, della pornografia. Sappiamo che oggi un bravo fotografo riesce a cambiare addirittura significato di quello che sta fotografando. Su questo concordo. La critica si fa con le parole, servono gli esempi, ma soprattutto le parole.


Nel secondo appuntamento milanese (ndr 8 febbraio 2011*Fabrizio Gallanti, riprendendo lo spunto di  Marco de Michelis sull'uso agiografico da parte dei media nei confronti degli architetti, notava:
«Se non abbiamo buona critica e se non ci sono critici italiani di qualità è perché purtroppo siamo un po’ tutti delle ‘troie’ devastati dal conflitto d’interessi, perché se pubblicassi contro, forse non vincerei il concorso da associato o non avrei l’incarico di curatela. Le poche voci che forse non ci sono, e che spero escano più libere su internet potrebbero cominciare a dinamitare questo permanente sotterraneo conflitto d’interessi che ha ammutolito le possibili voci di critica sulle riviste.»
Sarò franco, non è che sia un problema solo attuale quello della critica che fa le markette, è sempre stato così. Ripercorrendo la storia non possiamo non dire che il problema non ci sia stato. Forse c'era un po' più di pudore, forse gli editori chiedevano maggiormente una posizione critica che oggi non chiedono più, però su internet la critica c'è ed è anche feroce, basta andarla a cercare. Chiaramente non ha la visibilità che può avere una rivista come Casabella, Domus o Abitare, ma su internet la critica c'è.
È sbagliato dire che non ci sia. AntiTHeSi da diversi anni critica chiunque senza problemi, senza rischiare cattedre o curatele. La marketta è risaputa, non è una novità, io non mi scandalizzo di fronte ad un critico che fa una marketta.


Nel terzo appuntamento newyorkese (ndr 8 marzo 2011*), Alexandra Lange osservava come: «on line chiunque, abbia o meno i titoli per farlo, si ritiene un critico e si verifica una proliferazione di discussioni, spesso in assenza delle stesse opere architettoniche» mentre Joseph Grima sosteneva che, grazie alle pubblicazione online, è finito il tempo per le riviste di dover pubblicare obbligatoriamente e recensire positivamente un progetto.

Sì è vero, purtroppo la libertà di parlare lascia parlare anche chi non ha i numeri per farlo o chi dice anche delle stupidaggini. Ma la libertà di parola non impone anche l'obbligo dell'ascolto. In democrazia tutti possono parlare ma non è obbligatorio ascoltare, per cui si può scegliere quali riviste leggere anche su internet. Invece ciò che dice Joseph Grima non è così scontato, perché comunque la rivista tradizionale ha uno spazio cartaceo dove tanti messaggi passano meglio rispetto al Web. Una piantina letta sulla carta, vista, analizzata eccetera è comunque più facile o perlomeno più efficace di una lettura a video.
Sono due cose che s'integrano, poi è chiaro che, com'è avvenuto per quelle che erano le fiere tradizionali dove si andava in fiera per vedere le novità, oggi le novità si guardano su internet. In fiera, al limite, si va ad approfondire per cercare qualcosa di più, cosa che dovrebbero fare le riviste cartacee perché la novità o la situazione di novità è già su internet, perché è più veloce, perché arriva prima.

Dieci anni fa Paolo G.L. Ferrara rivedeva nel lavoro 'accademico' di Antonino Saggio l'idea teorizzata vent'anni prima da Bruno Zevi 'l'Università dell'aria', Zevi sosteneva che:
«un'università di massa è plausibile solo utilizzando per la didattica, strumenti di comunicazione di massa. Ogni tentativo di estendere i metodi di insegnamento elaborati per un’università élitaria alla nuova situazione dei nostri atenei è destinato al fallimento.»4
E, infatti, il fallimento è sotto i nostri occhi. Ritengo che, soprattutto dal punto di vista creativo, le università dovrebbero cambiare molto. Non esiste una verità garantita, tutelata dallo stato che debba essere insegnata e infusa. Pensiamo a Portoghesi, a Gregotti, ad Aldo Rossi, alle università, dove ci sono dei veri e propri edifici teorici che si difendono e si diffondono tuttora, che contrastano continuamente con ciò che accade nel mondo. Pensiamo alla città di Torino dove Gabetti e Isola per anni hanno imposto una specie di veto sull'architettura contemporanea. Lì, chi aveva un pensiero diverso, o prendeva quello o se ne andava o rinunciava. Io sono stato tra questi. Ma parlare di università oggi significa soprattutto parlare del valore legale della laurea e della sua velenosa ricaduta sociale, che illude i giovani e umilia la creatività professionale, con l'alibi di tante teorie urbanistiche che hanno solo prodotto confusione e corruzione diffusa. Ci vorrebbe un'altra intervista per discuterne a fondo.

Riprendo un passaggio rilevante dell'editoriale di Zevi:
«Il docente svolge la sua lezione in classe, e questa viene ripresa e trasmessa per radio o televisione. Rilevando lacune e difetti, potrà sostituirla nel giro di poche ore. Non costa niente. Cancella il videonastro e lo reincide. Più tardi, animerà la trattazione, inserendo diapositive, filmati o specifiche riprese dirette. In tale processo di continuo aggiornamento consisterà il suo impegno scientifico-didattico.»
Zevi aveva immaginato una didattica open source con media pre Web.

«Dibattiamo a perdifiato, senza mai affrontare il problema alla radice: didattica di massa con i mass-media.»5
Questa è la descrizione del Web ed è profetica. Zevi la immagina con i mezzi di allora (ndr 1977). La capacità di cambiare in corsa, di cambiare on-line come diciamo adesso, gli argomenti che non funzionano o che sono sbagliati, eccetera, è intuizione profetica, è Wikipedia, è la conoscenza che cresce, che si modifica nel tempo. Si capisce da questo quanto l'accademia tradizionale, la verità rivelata che proviene dalla tradizione, dalla sua purezza che deve essere tramandata, sia una bestemmia enorme. Veramente anticlassica quest'idea. È la storia che comunque si modifica, mentre il novecento dà rilievo a un pensiero finalistico della storia, automatico, che ha una sua strada, un suo indirizzo da percorrere. Karl Popper, nella critica al materialismo, diceva: “nessuno è carbone della locomotiva della storia”, per modificare il corso della storia non si può massacrare chiunque perché si deve andare da quella parte. Se pensiamo al pensiero del novecento, esso si fondava su una verità che era più forte degli uomini stessi che la concepivano.
Zevi è veramente profetico, dice: ma come? La verità che s'insegna, se non è totalmente vera, va modificata, non abbandonata, e con i mezzi adeguati la modifichiamo subito. Ma cosa ci vuole!? Non possiamo essere schiavi di qualcosa che non ha più nessun senso.
Questo è il senso dell'ultima frase.


Bruno Zevi e Giuseppe Pagano furono ambedue dei partigiani, ma con un antifascismo diverso. Il primo non condivise mai le idee del ventennio perché da ebreo fu costretto a fuggire, partecipando alle lotte con il movimento Giusitizia e libertà. Il secondo, inizialmente aderì al fascismo, pensando che gli intellettuali dell'epoca potessero accogliere l'idea di un'architettura basata sul linguaggio del moderno, poi resosi conto della deriva retorica monumentale intrapresa dagli architetti legati al regime, iniziò una dura lotta contro la cultura fascista. Alcuni editoriali di Casabella, firmati da Pagano, si scagliarono contro quest'attitudine architettonica con veemenza e coraggio, fino a pagarne le conseguenze con la morte nel campo di concentramento di Mauthausen tredici giorni prima della sua liberazione da parte dei sovietici.
«Per trovare l'impulso di un rilancio, occorre riportarsi alle lotte – afferma Bruno Zevi - di quella minoranza che, intorno a Terragni, Persico e Pagano, seppe opporsi alla retorica, alla corruzione, al commercialismo riscattando in extremis la cultura italiana dal disfacimento totale. […] Ai giovani dovrebbe indicare (ndr il razionalismo e Giuseppe Terragni) come il movimento moderno, con la sua enorme carica contestativa, non sia appannaggio e fregio dei padri e dei fratelli maggiori, ma costituisca un’eredità splendida e tremendamente pesante, tutta da reinventare.»6
Questa frase di Bruno Zevi, mi ricorda uno degli ultimi editoriali su Costruzioni (l’attuale Casabella) di Giuseppe Pagano del gennaio 1943 (n. 181) ‘E noi zitti’:
«Ed è probabilmente per questa ragione che molti di noi, quando han visto Ojetti benedire con la bava delle sue invettive l’architettura moderna buona o brutta, si son domandati se non capiterà anche con questa guerra quanto è successo con l’altra: che le generazioni buone, i giovani migliori e la gente di punta dovrà cedere posti, vita, diritti e speranze alle indisturbate comodità dei sessantenni, dei pentiti, dei reazionari, delle autorità sedute e irriducibilmente decise nella loro gretta e testarda prosopopea.»7
Recentemente su Rai storia ho visto un programma sui gerarchi fascisti. Avevano i privilegi che, più o meno, hanno oggi i nostri politici, con gli stessi atteggiamenti, eccetera. Per capire il fascismo, c'è una bellissima frase di Roland Barthes che, a proposito di linguaggio, dice: «il linguaggio non è né conservatore né progressista, il linguaggio è fondamentalmente fascista», perché il fascismo non è impedire di dire, ma è obbligare a dire. Che è una differenza sostanziale. Qualsiasi dittatura t'impedisce di fare e di parlare liberamente. Il fascismo non si accontenta e ti obbliga a dire e fare determinate cose. Se sappiamo questo, possiamo capire il personaggio Zevi. Si può capire quanto sia distante da questo tipo di pensiero e quanto invece fosse stato affascinato dal fatto, da giovane come sono i giovani con le nuove speranze eccetera, di poter imporre, quasi, un tipo di architettura del tutto nuova, di cui il fascismo, come hai ricordato, si servì all'inizio per dare l'idea di qualcosa di rivoluzionario, di moderno, di nuovo, eccetera, ma da cui subito si affrancò perché sicuramente il movimento moderno, essendo anticlassico, per natura non poteva certamente andare d'accordo con il fascismo.

O comunque con quella parte del fascismo che preferì una via di mezzo tra il moderno e il monumentale.

Il fascismo doveva essere celebrativo. Non dimentichiamo che il razionalismo e tutti gli 'ismi' del primo novecento sono 'antimonumentali', si va verso la dissoluzione della società e l'idea di modernità è quella che reggerà poi la democrazia. Che è qualcosa che si regge sull'equilibrio molto precario, perché basta poco per metterlo in gioco. Anche questa, mi dispiace per Tafuri, è una bella metafora della storia.

Negli stessi anni della contrapposizione quasi asfittica tra le idee di Bruno Zevi e Manfredo Tafuri, in Italia si sviluppò una cultura che sia Carlo Emilio Gadda sia Italo Calvino, nella narrativa, e Antonio Cederna o Antonio Siberia (pseudonimo di Indro Montanelli), nel giornalismo, avevano indicato come cultura emergente e per molti aspetti degradanti.
Una cultura che spesso, ma non sempre, derivava da un'emancipazione dei contadini o di un ceto basso a imprenditori che se ne fregavano della cultura borghese e che, facendo soldi, avevano iniziato a costruire un grosso impero finanziario personale, interi brani di città, alimentando quindi una nuova cultura. Mentre Tafuri e Zevi animavano il dibattito sull'architettura, non solo su scala nazionale, la cultura imprenditoriale italiana prendeva in mano il territorio italiano e lo trasformava radicalmente. Il paesaggio architettonico attuale raramente deve qualcosa alle idee di Zevi e Tafuri e parla il linguaggio dei tanti Pietro Caisotti - parafrasando il personaggio del libro di Italo Calvino, Speculazione edilizia, del 1957 - uomini rozzi e ignoranti, con segretarie sedicenni al seguito, che provenivano dall'entroterra e che avevano accumulato fortune fabbricando palazzi e edifici a discapito della ricerca architettonica.8
Ovvio è una parafrasi, non sempre questi imprenditori sono rozzi o tanto meno provengono dall'entroterra, spesso questi imprenditori edili hanno cavalcato l'idea di un'urbanistica moderna ma in realtà hanno trasposto i canoni costruttivi delle strutture in muratura nei nuovi edifici in cemento armato, sovente declinandoli con i linguaggi locali, che nulla hanno a vedere con il linguaggio dell'architettura moderna.
Perché Zevi e Tafuri non si sono preoccupati di questa rivoluzione culturale?

Questo è il tema dei temi, nel senso che l'architettura, come tutta l'arte contemporanea, è una questione di élite e rimarrà una questione elitaria. Come si fa a proporre dei nuovi valori e calarli nel territorio? Posti molto più strutturati di noi, anche da un punto di vista sociale, per esempio in Francia, non hanno ottenuto grandissimi risultati urbani, forse un pochino più ordinati, ma alla fine è il mercato quello che comanda. Viviamo in un sistema, dove, è vero, c'è una speculazione, ma lo speculatore a suo modo fa delle ricerche di mercato. Riesce ad andare a individuare quelle cose che possono essere gradite da una vasta parte di pubblico. 
Ti faccio un esempio: Antonino Saggio vive a Roma nel vecchio villaggio olimpico, ideato da un gruppo di architetti, tra cui Adalberto Libera e Luigi Moretti, che avevano progettato delle case in linea con delle finestre a nastro, belle per l'epoca, eravamo alla fine del 1960. Queste case, dopo le manifestazioni sportive, sono state assegnate come I.A.C.P. a nuovi residenti. Ebbene, le finestre a nastro sono state chiuse lasciando delle bucature centrali come singole aperture, perché altrimenti non c'era più il posto dove mettere il comò, il contro comò, il divano e il lampadario centrale.
Case che sono ancora oggi interessanti, perché noti come ci sia stato uno scontro di culture, nel senso che, chi si è emancipato ed evoluto economicamente, non sempre l'ha fatto sotto il profilo architettonico. Ad esempio, io ho parecchi amici che si son fatti i soldi e sono diventati come il marchese del Grillo. A loro dico sovente, ma perché non veicolate quei valori che vi han permesso, a voi figli di muratori e contadini, di diventare gente importante, facoltosa, eccetera invece di scopiazzare chi ha sempre tenuto i vostri antenati in una condizione di semi schiavitù? Questo è un paradosso che in architettura è cruciale e non credo riuscirà a cambiare facilmente. Questi signori viaggiano con l'ultimo modello di automobile più tecnologico possibile ma vivono in case che, se non sono vecchie, ne sono la loro caricatura.
Interrompere questa cultura, secondo me è difficile, è una questione elitaria, è una questione da buongustai dell'architettura e il mondo, in maggioranza, è fatto di gente di bocca buona.


Questo paradosso risiede nella cultura italiana?

È una sfida, questo paradosso, nel senso che tutta questa confusione, incuria, eccetera dovrebbe essere uno stimolo per un cambio di linguaggio. D'altronde le nuove proprietà linguistiche nascono dai disagi. E questo tipo di disagio dovrebbe suggerirci altre soluzioni, non più soluzioni massimaliste o razionaliste o funzionaliste, ma soluzioni più vicine a questo tipo di sensibilità, dove la gente si vuole rappresentare e, se gli si dà completamente carta bianca, si rappresenta nei modi più ridicoli.
È un aspetto importante che non è mai stato valutato, è la commedia umana che va rappresentata in qualche modo. Il fatto che non ci siano più argomenti di soluzione collettiva, argomenti di pertinenza generale, che l'architettura possa somministrare una medicina tale per cui si possa mettere tutti in una situazione collettivamente condivisa, questo secondo me non è più possibile e quindi dobbiamo capire come fare. Zevi aveva coniato il termine 'consorzio umano' piuttosto che società. Un consorzio tiene insieme autonomie diverse. Società è un termine generico e vago che pretende solo omologazione.
Sono in contatto con un artista napoletano il quale sta facendo un esperimento. Egli ha mandato a tante famiglie alcune schede da compilare, in cui devono descrivere la casa dei loro sogni.
Nelle risposte c'è veramente di tutto e bisognerebbe riuscire a raccontarla quest'inchiesta, perché ci son dei paradossi incredibili: gente che vuole vivere al settimo piano ma vuole l'ingresso con gli alberelli. Questo c'insegna che l'architetto dovrebbe imparare ad ascoltare, cosa che non è abituato a fare, perché c'è una sorta di presunzione dell'architetto, poiché si ritiene il padrone competente del contenitore della vita degli altri.
Quindi, secondo me, il rinnovamento del linguaggio ci deve essere per forza. E non può andare verso il minimalismo, o il silenzio, o il rifugiarsi in sensazioni spiritistiche e ascetiche, ma deve essere in accordo col rumore e la confusione, perché la confusione c'è. Un tempo, erano pochi quelli che avevano la possibilità di scrivere l'architettura e quei pochi modificavano il paesaggio in modo molto lento; ora molti, anzi moltissimi, hanno la possibilità di spendere, costruire e scarabocchiare case. Il paesaggio, quindi, si modifica in modo anche traumatico ed è compito dell'artista, dell'architetto, dare un senso estetico a tutta questa roba, altrimenti sono solo belle parole.

20 febbraio 2012
Intersezioni ---> MONDOBLOG
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Note:
1 2A+P, Marco Brizzi, Luigi Prestinenza Pugliesi, GR La generazione della rete, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003, p. 305.
2 Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1948, p. 144.
3 Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino, 1980, pp. 21-22.
4 Paolo G.L., Ferrara, Università dell'aria venti anni dopo, Antithesi, 30 luglio 2001. Link 
5 Bruno Zevi, Per un'università dell'aria, L'architettura - cronaca e storia, n. 261, luglio 1977, in Editoriali di architettura, Einaudi, 1979, pp. 388-390.
6 Bruno Zevi, Terragni: scontro sulla sua eredità, L'architettura - cronaca e storia, n. 153, luglio 1968, in Editoriali di architettura, Einaudi, 1979,  p. 73.
7 Giuseppe Pagano, E noi: zitti, Costruzioni, n. 181, gennaio 1943 in Casabella 195/198, fascicolo speciale dedicato all'architetto Giuseppe Pagano, allegato a Casabella n. 763, febbraio 2008.
8 Per comprendere meglio la parafrasi, cito un passaggio del libro:
«- Finora gli sono andate tutte bene, - disse l'avvocato.
- È sceso a *** dalla campagna coi calzoni rattoppati, mezzo analfabeta, e adesso impianta cantieri dappertutto, maneggia milioni, fa la pioggia e il bel tempo col comune, coll'Ufficio Tecnico...
Quinto riconobbe l'astio nelle parole di Canal come un accento familiare; era la vecchia borghesia del luogo, conservatrice, onesta, parsimoniosa, paga del poco, senza slanci, senza fantasia, un po' gretta, che da mezzo secolo vedeva intorno cambiamenti cui non riusciva a tener testa, gente nuova e difforme prender campo, e doveva ogni volta recedere dalla propria chiusa opposizione facendo ricorso all'indifferenza, ma sempre a denti stretti. Ma non erano gli stessi sentimenti a muovere Quinto? Solo che Quinto reagiva sempre buttandosi dall'altra parte, abbracciando tutto quello che era nuovo, in contrasto, tutto quel che faceva violenza, e anche adesso, lì, a scoprire l'avvento d'una classe nuova del dopoguerra, d'imprenditori improvvisati e senza scrupoli, egli si sentiva preso da qualcosa che somigliava ora a un interesse scientifico («assistiamo a un importante fenomeno sociologico, mio caro...») ora a un contraddittorio compiacimento estetico. La squallida invasione del cemento aveva il volto camuso e informe dell'uomo nuovo Caisotti.»
Italo Calvino, La speculazione edilizia, 1957 in Italo Calvino: Romanzi e racconti: 1, I meridiani, Mondadori, Milano, III edizione, 1995, p. 796

L'intervista fatta il diciannove luglio del 2011 è stata rivista e aggiornata il diciotto febbraio del 2012. La foto animata è composta da frammenti di screenshot scattati, durante il dialogo avvenuto su Skype, da Salvatore D'Agostino.

7 commenti:

  1. Matteo,
    la nostra generazione è stata devastata dagli epigoni senza qualità della precedente generazione capace di affrontare i temi ‘architettonici’ con più profondità.
    Anche se questi ultimi dimenticarono (per elitarismo) di osservare il cambiamento attuato ‘dall’uomo nuovo’, intraprendente, spesso non borghese che inventò un nuovo ‘gusto edilizio’.
    Un distacco che ha compromesso non di poco il territorio italiano.
    Un contributo importante a questa stasi ‘architettonica’ deriva anche da una colta borghesia che catalizzò il dibattito (usando i media giornali e settimanali) sull’intoccabilità di parti della città ‘borghese’ creando una cesura semantica e civile tra ‘centro e periferia’.
    Serve ricordare che dagli anni 70’ in poi più del cinquanta per cento degli italiani sono cresciuti ai bordi della città. Basta fare una semplice comparazione numerica con il nuovo costruito.
    Im questo momento storico serve una visione lucida e completa dello stato dell’architettura ‘italiana’ per cambiare ‘identità’ poiché quella dell’uomo nuovo e del critico elitario ha creato molti problemi.
    Anno zero. Basta chiacchiere da bar. Ricostruiamo il nostro intorno: la piccola scala con un senso architettonico e urbano.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  2. Il dialogo tra Sandro Lazier e Salvatore D'Agostino è veramente denso bello interessante. Un dialogo serio pieno anche di idee e di spunti. Grazie ad entrambi per la "serietà" di questo lavoro. Utile veramente a chi legge.
    Vorrei inoltre ringraziare della citazione. In tutta franchezza però mi sono sentito, un po' come quelli architetti per cui "l'importante è essere pubblicati" qui o li, piuttosto che sulla centratura dell'osservazione analitica o della pertinenza della critica. Al Villaggio Olimpico c'è lo studio mio e del gruppo Nitro, non vi abito, questa è una precisazione. Citarmi su questo dettaglio mi sembra, carino, ma veramente poco utile per il lettore. Forse forse, in questo contesto più utile sarebbe ricordare "Architettura e Modernità. Dal Bauhaus a La rivoluzione Informatica" che mi sembra dica e faccia cose sostanziali su quanto si dibatte nell'intervista. Sull'idea del costante aggiornamento, scritta daZevi, segnalo che dal 1999 le mie lezioni universitarie sono esattamente strutturate come preconizzava Zevi. Un canovaggio con immagini e testi, una serie importanti di link e immagini e poi un continuo aggiornamento in progress operato dagli studenti. Questa struttura usata da tredici anni per centinaia e centinai di lezioni "fa" quello che dite. Alla lezione è collegata la registrazione audio, che cambia ogni anno, perché ogni anno lo stesso argomento è appunto costruito ricostruito con un taglio diverso. Tutto è on line, cercarsi il link se interessa. Grazie e ancora complimenti per l'utilissimo dialogo

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  3. Effettivamente anch'io sono rimasto stupito dal metodo del prof. Saggio e - quando posso - seguo i corsi (ma soprattutto il "diario" del corso creato ad hoc da ciascun allievo) on-line.
    In fondo anche questa è l'Italia: da una parte ci sono facoltà che da 50 anni studiano sul Benevolo (per carità, grandissimo autore) e poi ci sono altri che hanno capito che l'architettura guizza come un pesce nell'oceano ed è impossibile da afferrare con le mani.
    Io credo che la lezione (o almeno una fra le tante) di Zevi sia quella che non esistono paradigmi immutabili che possono fare da fondamenta a tutta la critica architettonica ed occorre sempre e costantemente rileggere l'architettura con l'occhio del presente, mai del passato.
    Il suo pezzo sull'Eretteo è esemplare a mio parere: continua ad essere anche oggi il mio preferito.

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  4. Antonino Saggio,
    la tua didattica mi ricorda il concetto di crisi dal greco crisis ovvero cambiamento.
    Saluti,
    Salvatore

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  5. Matteo,
    ottima sintesi del pensiero di Zevi.
    Il ‘passato’ spesso è mitizzato dai nostalgici ‘da salotto’ che parlano di un tempo che non hanno mai vissuto. Trascurando la lezione di Alois Riegl che dice che la critica non giudica le opere per indicare gerarchie estetiche ma ha il compito di analizzare e capire i fenomeni nel loro significato e sviluppo storico.
    Ad esempio non possiamo leggere la storia dell’architettura della metà dell’ottocento in poi senza conoscere la storia delle trasformazioni urbane e architettoniche dovute all’invenzione (extra accademia architettonica) come: elettricità, catrame, ferro strutturale, calcestruzzo armato e vetro.
    Infine non possiamo trascurare l’incidenza dei primi movimenti sindacali poiché grazie a essi gli operai hanno iniziato ad abitare in ‘spazi urbani’ vivibili, poiché prima oltre il centro di potere (il paranoico petulante ‘centro storico’ dei media mainstream e di molti blog blag) questi ultimi abitavano in aree urbane degradate.
    Il moderno inizia con una presa di coscienza ‘civile’ contro i poteri gerarchici ‘borghesi’. Una storia da rileggere e raccontare per bene.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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