12 aprile 2012

0026 [A-B USO] Mauro Francesco Minervino | Statale 18 | Prima parte

di Salvatore D'Agostino
seconda,  terza e quarta parte
«In soli 15 anni (fra il 1990 e il 2005) in Calabria sono stati edificati 269.560 ettari pari al 26,13 per cento dell’intero territorio regionale. [...] È sempre più chiaro che se non si inverte questo modello di “accumulazione primitiva” non si riuscirà a bloccare il degrado, non solo ambientale, della regione». (Mauro Francesco Minervino)1
Mauro Francesco Minervino è un antropologo calabrese che non ha bisogno di andare lontano per le sue ricerche poiché il luogo dove vive e delle sue quotidiane osservazioni è la diciottesima statale italiana che da anni percorrere senza sosta: «La mia vita spesso è un giro a vuoto. Il mio mondo un ago in un groviglio di strade».2

In fondo a sud, La Calabria brucia e Statale 183 sono i libri dove ha riportato le sue analisi, l’intervista che seguirà è divisa in più parti (,   e ) poiché le risposte, ampie e dettagliate, meritano pause di riflessioni più che letture veloci senza area di sosta.


Salvatore D’Agostino La statale 18 è lunga 535 km e collega Reggio Calabria con Salerno nei suoi due sensi. La statale 18 è la geografia del tuo perenne errare, un viaggiare quasi ossessivo, dromofolico, senza sosta, Statale 18 è il titolo del tuo libro che Andrea Di Consoli definisce autoptico: «l’autopsia di un mondo nuovo che sta crescendo e che nessuno riesce a capire bene».4
Statale 18 non è un libro di viaggio o una guida o un saggio di antropologia5 è un’immersione fisica narrativa su un groviglio di strade che ricamano il luogo in cui vivi.
Un’autofiction6 secondo una tua definizione. Che cosa intendi per autofiction?

Mauro Francesco Minervino Lo spiega lo stesso Marc Augé, antropologo-narratore, autore di romanzi e narrazioni culturali e civili di cui i libri che scrivo sono tributari:

«Io riconosco alla scrittura la stessa attività “simbolica” che unisce l'autore ai suoi lettori attraverso un vincolo forte e segreto, perché il senso dipende da ciascun lettore. C’è una continuità tra l’antropologia e il romanzo. Si tratta di due scritture parallele, ma di segno inverso. L’antropologia tenta di analizzare i fatti sociali ‘come delle cose’ (Durkheim), e si ferma davanti alla diversità delle soggettività individuali. Il romanzo segue sempre il percorso inverso: parte dalle soggettività individuali e tenta di illuminare attraverso di esse il contesto storico e sociale».
Io credo che la contemporaneità, con tutte le sue contraddizioni e le sue approssimazioni, abbia bisogno dei due momenti, oggi come ieri. Già nel Settecento e nell’Ottocento molti grandi autori praticavano generi letterari differenti, e credo che oggi la complessità dei fenomeni tipici della contemporaneità, dove tutto confluisce e si accavalla in una sorta di convergenza sempre più affollata di fenomeni e di tratti culturali ambigui e inestricabili (la presenza pervasiva della comunicazione e dei media, la pubblicità, la spettacolarizzazione di ogni aspetto della realtà) abbia ancora più bisogno che nel passato di essere raccontata incrociando una molteplicità di linguaggi e di forme di racconto.

   Lo stesso Marc Augè, dopo Victor Segalen, Michel Leiris e il Levi Strauss di “Tristi Tropici”, sono stati maestri e anticipatori di questo genere di narrazioni partecipate. È sempre più necessario che la letteratura classica, eredità del romanzo borghese, con protagonisti e trama, si rinnovi nella narrativa civile, nell’etnofiction che nasce dal crepuscolo dei nostri tempi privi di finalità. È la cifra di un genere ibrido ma necessario. Un narrare con metodo etnografico che personalmente mi affascina per sensatezza e gusto di verità. Certo quello che scrivo in prima persona e con il peso della responsabilità, resta distante anni luce dalla fuffa letteraria di certi scrittori e pensatori alla moda di casa nostra.

Chi sono questi pensatori alla moda? 


Non mi va di fare nomi (sono molti), ma penso soprattutto a certi colleghi -scrittori e antropologi- salamandre del posizionamento, amministratori delegati delle opportunità della penna, velinari ben addestrati a trovare partito, proni al buon compromesso, che poi si spacciano per vittime al primo soffio di vento contrario (specie se si perdono i soldi al cambio degli assessori, se qualcuno si permette la critica, e smarrisce momentaneamente la via maestra delle consulenze dei ministeri), e anche a quelli che ancora scrivono romanzetti presepiali sul sud, sulle tradizioni, sulla nostalgia e il ricordo del bel mondo andato.

Ecco tutta questa gente mi sta francamente e civilmente sul cazzo (ma questo non va oltre il personale, e quindi è culturalmente irrilevante).

Sono, inoltre e più gravemente, nemici giurati della bellezza vera, di cui spesso straparlano, che invece non sta mai lontana dalla verità.

Il fondo del tuo vagare per Statale 18 è l’asfalto.

L’asfalto, come materiale costruttivo, insieme di ferro, calcestruzzo armato e vetro, ha caratterizzato le trasformazioni urbane dalla fine dell’ottocento a oggi. Un aspetto spesso sottovalutato dagli analisti delle vicende urbane, l’architetto e teorico Mirko Zardini nel 20037 gli ha dedicato uno studio, riposizionando l’asfalto tra gli artefici del carattere della città.
Il connubio asfalto e calcestruzzo armato fanno da sfondo al tuo libro. Direi che caratterizza il paesaggio sociale poiché l’asfalto e il calcestruzzo armato sono incistati nella cultura di questi luoghi. Perché?

Carattere della città o non piuttosto del suburbio?


In cui proprio questi elementi “estesi” della scena contemporanea trionfano più tristemente?

   La città è il luogo del logos, dell’immaginazione nascente, della misura, anche per la molteplicità dei suoi materiali, oggetti, costrutti, di quell’impasto di materie armonizzate dall’architettura che ne fanno il volto e l’edificio. In fondo il cemento come l’asfalto rappresentano invece il grado zero, l’infinita fungibilità della materia tecnologica, l’informe, il pre-logico dell’architettura. Sono come il pongo. Rappresentano efficacemente il climax della dimensione casuale. Della piena strumentalità della tecnica. Del vuoto per il pieno (ferro, asfalto, cemento e vetro passano tutte da uno stato liquido a uno solido). Formano quella metamorfosi tecnologica delle “archai”, che Hillman ne L’anima dei luoghi chiama la “res extensa”, ovvero il dominio della materia pesante, coprente, della tecnica edilizia che impedisce la sinossi tra passato e presente. Sono l’impasto edificato di quel presente continuo e senza prospettiva che caratterizza la pratica sociale dello spazio, il conglomerato del cattivo gusto architettonico che è lo cosa lucida delle nostre società. Personalmente odio il cemento e l’asfalto, il calcestruzzo, il vetro. Credo che questa detestatazione per i materiali freddi, astorici, coprenti e pervasivi, si legga sempre con rabbia nelle narrazioni sui luoghi e sugli abitanti che ho messo insieme nei miei libri. Oggi con questi materiali costruiamo in modo orribile e definitivo, ovunque sia possibile costruire, consumando, appesantendo la terra, appestando ciò che resta della bellezza del paesaggio con il brutto; la materialità del cantiere, ridondante, eccessiva, in tutte le sue forme incongrue. Ne soffre la natura intera, le nostre percezioni, l’estetica, oberati come siamo dalla peste liscia o screziata del cemento.

   Bisognerebbe riguadagnare spazio, demolire, ripristinare la natura-naturale (ovvero lasciar fare alla natura), ritornare al concetto del limite, al tabù sacro dei luoghi in cui è interdetto costruire. Questo luogo inedificabile, laddove oggi sarebbe impensabile costruire la bellezza. Ma avremmo bisogno di un sentimento del sacro per i luoghi che abbiamo smarrito. Del silenzio. Della cesura. Il nastro d’asfalto, la strada è il trionfo dell’impermanente, del caos, del passaggio continuo verso la fungibilità della forma. Delle esistenze “adesso”, delle vite asfaltate via. È scomparsa la cura. Se nessuno pensa più al "prima", figuriamoci al "dopo". La bellezza è stata una cosa scabra e leggera, fragile per lo più. E non aveva, non ha, bisogno di strade. Qualcosa può durare ancora oggi, se conserveremo, interrogandoci senza scampo, senza opprimere i luoghi sui cui la bellezza è stata già da tempo edificata. La custodia, il custodire che spetta gli umani è l'ultima ombra del sacro. 

   E a proposito del mio vagare su e giù per la SS 18, ti confesso che per me vivere sulla strada va oltre l'osservazione, registro altre sensazioni: spesso è come essere ospiti d’onore nei diorami tetri del destino, della fatalità che governa gli incidenti, la baraonda del traffico. Le barriere costruite dall’uomo per fare argine alla vita sono artificiali, insufficienti, e non c’è nemmeno il tempo per una preghiera ai vecchi santi di cartapesta dei paesi, che ormai sono divinità distratte e sorpassate dal traffico. Anche se su questa stradea del Sud seminata di scheletri di ferro e calcestruzzo non hanno smesso di costruire orribili chiese di cemento, anche nei villaggi-vacanze. Chiese che nessuno frequenta. La strada è un cenotafio: pareggia tutto al manto dell’asfalto, vita e morte sono sullo stesso piano, come una trappola paziente. L’immortalità è un fazzoletto di terra ancora risparmiata dall’erba cattiva oltre il bordo dell’asfalto. Speranza e risentimento si toccano nell’andirivieni di ogni ora.

   Malgrado tutto, amo questa ridondante devastazione, questa invasione del nuovo disordine Mediterraneo che, lontano e vicino, lascia qua e là interstizi e asili di passato, frustoli di natura deturpata (case coloniche e fienili in disuso, interi paeselli svuotati e corruschi, giardini frondosi di ville un tempo signorili, vecchi fabbricati invano baciati dal sole, una fiumara intasata dalle fogne, qualche vecchia torre costiera assediata dagli abusi, un padiglione ferroviario arrugginito, un bosco di tamerici vicino alla discarica di mucchi di gomme usate). È perché sono convinto che in questi luoghi di deliquio sia stata racchiusa una rivelazione di durata che va oltre l’impermanenza, la provvisorietà che è la legge del contemporaneo a queste latitudini, o quantomeno l’impronta della sua promessa disattesa. Io a queste cose penso ogni volta che faccio le mie strade.

12 aprile 2012 (ultima modifica 21 aprile 2012)
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Note:
1 Mauro Francesco Minervino, Statale 18, Fandango, Roma, 2010, p. 31

2 Mauro Francesco Minervino, Statale 18, Fandango, Roma, 2010, p. 13
3 In fondo al Sud (con prefazione dell’antropologo francese Marc Augé), Philobiblon, 2006. La Calabria brucia, Ediesse, 2008. Statale 18, op. cit.
4 Andrea di Consoli, Strada città ai bordi della vita, Il quotidiano, 7 novembre 2010 *
5 Nel suo senso più puro perché non offre spiegazioni.
6 Fahrenheit, Mauro Francesco Minervino e la Statale 18, Radio tre andata in onda il 13 gennaio 2011*
7 A cura di Mirko Zardini, Asfalto: il carattere della città, Electa, Milano, 2003. Catalogo della mostra della triennale di Milano del 4 marzo- 27 luglio 2003.

8 commenti:

  1. Ciao Salvatore, aspettavo il tuo ritorno post-pasquale con qualcosa di interessante e hai superato ogni aspettativa con questa intervista.
    Aspetto di leggere il resto e intanto mi appunto qualche considerazione.
    Un saluto

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  2. "Bisognerebbe riguadagnare spazio, demolire, ripristinare la natura-naturale (ovvero lasciar fare alla natura), ritornare al concetto del limite, al tabù sacro dei luoghi in cui è interdetto costruire."

    Sono parole che mi ricordano il terzo paesaggio di Gilles Clément (http://www.amatelarchitettura.com/2009/04/contro-il-concetto-di-patrimonio-inviolabile-e-contro-il-vincolo/), e allora vorrei chiedere a Mauro Minervino se non stia per aprirsi una fase nuova.

    Con la crisi che morde la domanda aggregata è possibile che anche il cemento e il ferro per costruire nuovi obbrobri affluiscano più lentamente lungo le nostre statali. La natura sarà in grado di riappropriarsene? Quale spazio può ritagliarsi l'architettura in questo ambito?

    La dimensione del romanzo urbano mi sembra decisiva, proprio per i punti di contatto che ha tanto con l'architettura quanto con l'antropologia. Sono temi su cui ho cominciato a riflettere grazie ad un museo che inizialmente non capivo, e quasi mi sembrava inutile: il PAV (Parco di Arte Vivente -http://www.parcoartevivente.it/pav/index.php?lingua_sito=1).

    Ai vostri occhi esperti qualche risposta. Io, nel frattempo, comincio a sognare un viaggio a piedi lungo le antiche strade romane. Boccate di sabbia riempiono il crepuscolo.

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  3. Rem,
    il seguito è già scritto ma seguirà dopo la vicenda biennale che vorrei raccontare.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  4. Hassan Bogdan Pautàs,
    aspettando le risposte di Minervino, a proposito del PAV, ti chiedo: perché prima ti sembrava inutile? E perché adesso hai cambiato idea?

    Saluti,
    Salvatore

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  5. Ciao Salvatore,

    il PAV (Parco di Arte Vivente) è un luogo in cui si esplorano i confini fra arte contemporanea e natura.

    Quando ci sono entrato per la prima volta, l'ho osservato con gli occhi del ragioniere comunale: ma guarda come usiamo i nostri soldi, eccetera eccetera.

    Poi ho cominciato a riflettere. Lasciare che siano le piante a dare forma al paesaggio, fare in modo che la natura si riappropri di una porzione di ciò che le abbiamo strappato. Significa qualcosa.

    Credo che le riflessioni sul Terzo Paesaggio, che lì ho potuto fare, mi abbiano mostrato la relazione fra ciò che leggo e ciò che scrivo.

    Insomma, i nodi sembrano sempre slegati, e i pezzi che cerco si lambiscono appena. Cammino su un ponte di corde, e per legarne di nuove devo slegarne di vecchie. Ma tant'è, è meglio abituarcisi.

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  6. Hassan Bogdan Pautàs,
    t’invito a leggere i libri di Gilles Clément (trovi molto anche sul suo sito http://www.gillesclement.com)..
    Clément nel suo manifesto per il ‘terzo paesaggio’ scrive: «Istruire lo spirito del non fare così come si istruisce lo spirito del fare».
    Il moderno, nonché il post moderno, si sono basati sullo spirito del fare ‘nuovo’ o del fare nuovo con brio citazionistico.
    Oggi abbiamo bisogno di superare ‘il fare moderno’ per una nuova istruzione del fare (lo spirito del non fare potrebbe essere un buon punto di partenza).
    Saluti,
    Salvatore

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  7. il non fare, il ritiro delle pretese demiurgiche, il ripristino dell'ordine di natura (che si afferma dopo ogni catastrofe). sì sono d'accordo. ma l'uomo edifica, è affetto da questa malattia. allora rimettiamolo a lavorare al paesaggio, questo lo spazio che io vedo per l'architettura; quello del meno contro l'esorbitanza dei costrutti. una demiurgia moderata, etnografica ed ecologista alla bateson. non so se si aprirà davvero una fase nuova, quello che so è che è necessaria. basta guardarsi intorno.m.

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  8. M.F. Minervino
    non so neanch’io se si aprirà una fase nuova ma penso che il cambiamento ‘d’identità errate’ forse possa passare da una presa di coscienza ‘immersiva’ (come fai nei tuoi libri) della realtà.
    L’architetto Lebbeus Woods passando da San Sperato si straniva come l’effetto ‘favelas’ del paese possa essere stato determinato usando materiali ‘ricchi’ come il cemento.
    Se ti va leggi qui
    .
    Una strana modernità come si legge anche nel tuo libro.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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