2 luglio 2012

0033 [A-B USO] Marco Dezzi Bardeschi | L’architettura vive solo una volta

di Marco Dezzi Bardeschi1

   Sulla «Lettura» Luigi Prestinenza Puglisi2  ha voluto ricordare che il terremoto ci pone di fronte all’alternativa di massimizzare la permanenza dei beni architettonici colpiti e accettando un dialogo creativo tra antico e nuovo o – al contrario – inseguire l’impossibile, inattuale «effetto mummia» del ripristino, con l’ingenua illusione di rimuovere l’accaduto. Trovo sorprendente che alcuni ancora sostengono questa seconda posizione, persino coloro che dovrebbero conoscere a memoria l’articolo 29 del Codice del 2004 dove si definisce il restauro come  «l’intervento diretto sul bene, finalizzato alla conversazione della sua integrità materiale». Altri che regressivi ritorni allo stato quo ante! La grande cultura del restauro di Boito (1883) e quelle che le sono succedute, da Giovannoni (1931) a Gazzola/Pane (Venezia, 1964) per contrastare, nelle intenzioni e negli esiti i tragicomici pastiches delle ricostruzioni analogiche in stile a scapito dell’originale perduto. Questa cultura si è sempre mostrata critica contro il tradimento della Storia e della Memoria dello slogan «com’era, dov’era», coniato da Corrado Ricci a favore dell’equivoca ricostruzione à l’identique del campanile di san Marco a Venezia (1911). 

   Perché un critico d’arte come Vittorio Sgarbi, invece di compiacersi di aver convalidato la ricostruzione in immagine delle parti perdute della cupola del duomo di Noto (ormai indistinguibili dai resti sopravvissuti), non si ricorda di una ben diversa scelta da lui adottata per la ricostruzione (evitata) delle teste dei Buddha di Bamiyan? Il restauro – questo insegniamo ai giovani – non è la passiva «riproduzione delle linee originali» perdute. E l’architettura non è riproducibile, proprio come pittura e scultura. Il restauro è conservazione della materia esistente, non la riproduzione in effigie di un’astratta «memoria» metaforica. Neppure il più idealista dei teorici potrebbe oggi sostenere che i materiali nell’architettura sono ininfluenti perché l’architettura è disegno idea, feticcio. L’architettura non è solo disegno di un presunto unico autore, ma opera collettiva, che prende corpo attraverso il lavoro febbrile a creativo di tanti maestri e maestranze che gli danno quella unicità e singolarità destinata a crescere nella vita quotidiana delle generazioni che quell’architettura vivono e nei segni identitari che si accumulano su suoi muri… 

   Stento a capire questa totale disattenzione ai valori autografi dell’architettura, alla (peribile ed irriproducibile) autenticità materiale del suo corpo fisico. Che porta ad anacronismi distinguo e a prefigurare una Bella Italia di cartapesta. E stento a capire l’irritata intolleranza verso il progetto del nuovo. Non si può demonizzare il nuovo a favore di un rinunziatario e più consolatorio ritorno feticistico alle maschere del passato, come autoppagante rievocazione in immagine da operetta. «A ogni secolo la sua Arte» era scritto a caratteri capitali sull’edificio della Secession a Vienna. Il patrimonio gravemente ferito dell’Emilia merita rispetto di un ingannevole e sbrigativo slogan inattuale. Basta con tutti i falsi centri storici come improbabili presepi per turisti da shopping. Il cuore storico della nostre città non è un outlet commerciale falso-antico, né un immateriale Paese dei Balocchi della nostra fantasia.

2 luglio 2012 
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Note:  
Marco Dezzi Bardeschi: Ingegnere e architetto fiorentino è docente di Restauro al Politecnico di Milano, dove ha fondato il dipartimento di «Storia e Conservazione dei Beni architettonici». È direttore della rivista «Ananke».
  
1 Marco Dezzi Bardeschi, Il restauro è recupero: l’architettura vive solo una volta, Corriere della Sera – La Lettura, 1 luglio 2012, p. 4
2 Luigi Prestinenza Puglisi, Sgarbi e Italia Nostra, non ‘salvate’ l’Emilia in stile Disneyland, Corriere della Sera – La Lettura,  17 giugno 2012. Link

13 commenti:

  1. Cito Wilfing che cita Zardini citando altri.....
    «Koolhaas ha segnato un periodo, ma il dibattito non può essere egemonizzato dalle stesse persone che hanno dominato la comunicazione negli ultimi vent'anni. Non si può andare avanti nei modi ancora di recente utilizzati da Winy Maas degli MVRDV: a ogni problema corrisponde una soluzione che, naturalmente, si incarna in un progetto di architettura. Molto spesso la soluzione è non fare niente. Il progetto più bello degli ultimi anni forse è stato quello di Lacaton e Vassalle per il concorso di «abbellimento» di place Léon Aucoc a Bordeaux. Dopo avere frequentato il posto e parlato con i passanti e gli abitanti, proposero di lasciare tutto così com'era, al di là di qualche intervento di manutenzione, perché la piazza non aveva bisogno di miglioramenti». (Mirko Zardini)

    potremmo parafrasare con LPP?
    non saebbe il caso di cominciare ad abbandonare queste trite e ritrite questioni che finiscono sempre sulla sterile contrapposizione tra nuovo ed antico, moderno e tradizionale?
    Possibile che alla fine tutto si riduca ad un "chiamiamo un bravo architetto"?
    davvero pensiamo che un Renzo Piano possa risolvere tutto da solo in ogni luogo?
    un centro storico si recupera se sappiamo ripensare la città in maniera da essere recuperabile (riutilizzabile) anche senza dover chiamare sempre la star di turno.

    Non mi meraviglio se gli architetti godono di pessima fama presso la nostra società civile; prima di cominciare ad accapigliarsi su com'era dov'era, bisognerebbe riflettere seriamente dulle esigenze reali e concrete di queste città.
    C'è una destinazione d'uso? c'è un pensiero "politico" che le anima?
    c'è un piano economico? un progetto industriale? una volontà di stimolare il turismo? il commercio?
    prima degli architetti servono amministratori che sappiano interpretare le città che governano, che sappiano scegliere. Il nostro ruolo può esser solo quello di interrogare i nostri potenziali clienti con una semplice precisa domanda:
    che cosa vi serve?

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  2. Qfwfq,
    seve prima di tutto un nuovo senso civico adatto alle istanze del novecento (ahimè ancora dobbiamo maturare quelle) l’autodeterminazione della società di ‘massa’ contro la società delle élite.
    Abbandonare l’identità del singolo (culto italico per eccellenza) per una nuova identità collettiva, aperta, contrapposta, eterogenea e soprattutto attiva.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  3. Secondo me bisogna vedere caso per caso. Ad esempio, Varsavia, ricostruita in buona parte sul tale e quale grazie ai dipinti di Bellotto. Ancora 20 anni fa sapeva di falso, ma ora che i vecchi muratori del dopoguerra stanno scomparendo, ora che la memoria diretta della ricostruzione si affievolisce, i turisti di nuovo la affollano credendo di immergersi nel '700. Sono convinto che, tra 60 anni, lo stesso accadrà con il castello di Berlino, sebbene di gran lunga preferivo un restauro dell'abbattuto Lumpenpalast.

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  4. Anonimo,
    riprendo la tua frase: «i turisti di nuovo la affollano credendo di immergersi nel '700».
    I turisti s’immergono su tutto ma la città a dimensione del ‘turista’ sovente espelle la città degli uomini.
    Si deve ricostruire la città non la sua immagine di un tempo che non vive più; un tempo che adesso è stato fratturato.
    Sappiamo costruire migliore cercando di usare diverse partiture architettoniche iniziando a evitare i suoi surrogati.

    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  5. A cosa servono le rovine del Colosseo? Eppure, se una catastrofe lo facesse crollare del tutto, sono convinto che lo si ricostruirebbe subito, seduta stante. E non lo si farebbe di sicuro nuovo (in acciaio) nè falso antico (pietra) e completo. Nessuno avrebbe da obiettare ad una sua ricostruzione come era un mese prima, cioè allo stato di "inutile rovina", e lo stesso si affollerebbe di turisti, e lo stesso tornerebbero i centurioni (ahimè ora sfrattati in nome di un falsissimo perbenismo).
    Ecco perchè non possono esserci ricette universali, ma ogni città, ogni edificio e persino ogni muretto che ha più di 60 anni deve essere degnato di un'analisi in merito al se e al come ricostruirlo. Non è facile, ma abbiamo testa, braccia e cuore per farlo.
    Davide Dal Muto.

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  6. "Il patrimonio gravemente ferito dell’Emilia merita rispetto di un ingannevole e sbrigativo slogan inattuale. Basta con tutti i falsi centri storici come improbabili presepi per turisti da shopping."
    Reggiolo (RE) viveva grazie al suo piccolo e grazioso centro storico (Castello e Corso), che era non solo riferimento ma anche sede dei commerci per gli abitanti (e non per i turisti).
    Sono stato ieri a Reggiolo, per lavoro.
    Dopo la paura e la voglia di fare, adesso sta subentrando la tristezza. Il centro storico, la vita stessa del paese, è transennato e inaccessibile (come del resto ancora a L'Aquila), e nessun centro commerciale o outlet di periferia potrà mai sostituire nel cuore ciò che era il centro...

    Saluti.

    Davide Dal Muto.

    http://www.google.it/imgres?q=reggiolo+terremoto+foto&start=40&num=10&hl=it&biw=1920&bih=989&tbm=isch&tbnid=uJIUwORxWf8Q3M:&imgrefurl=http://www.reggionline.com/it/2012/06/23/reggiolo-prove-di-ripartenza-ridotta-la-zona-rossa-14032&docid=GqOc39Vy5qe0qM&imgurl=http://s3-eu-west-1.am

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  7. Davide,
    i tuoi due commenti affrontano due aspetti ‘specifici’ e opposti tra di loro.
    Il primo affronta il tema della ‘rovina’ usando l’immagine iconica del ‘Colosseo’ le ‘rovine’ ovvero i monumenti privi di vita civica abitativa ma ricchi di memoria vanno distinti dal tema della ricostruzione di una città colpita dal terremoto. Va da sé che non tutte le pietre sono ‘monumentali’ e serve discernere ‘senza esagerazioni affettive da sagra storica paesana’ ciò che è veramente ‘monumentale’ per affrontare un progetto su ciò che è rimasto non su ciò che era, poiché una rovina continua a rovinarsi nel tempo e agli umani serve ‘memoria’ non ricostruzioni da parco a tema.
    Il secondo affronta il tema della ‘ricostruzione’ cioè: come riprogettare un luogo segnato da una disgrazia?
    Un trauma va risolto lentamente nel tempo. Un trauma ha sempre un prima ‘a posteriori supposto idilliaco’ distrutto dall’oggi. Un trauma non ha punti di ripristino e segna un inizio.
    Sarebbe opportuno pensare al domani evitando di catatonizzarsi sull’ieri poiché ciò che abbiamo sotto gli occhi è il presente non il passato.
    Sarebbe anche opportuno ripensare agli errori fatti nel recente passato.
    Due su tutti: considerare la propria piccola media industria come un capannone da costruire ovunque se ne ha voglia e il sogno piccolo borghese della ‘casa in villa’ (molto antiurbano).
    Sarebbe un gran passo avanti verso una società civile e non ottusa irrelata sul senso civico ‘sono cazzi miei’.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  8. Carissimi,
    mi inserisco in una discussione che ritengo veramente importante per il futuro della nostra nazione, e non solo.
    Credo, come Davide, che esistano dei monumenti che sono dei veri e propri simboli. Ed è proprio questa parola che ci fa capira la diversa cifra di queste opere: la sua etimologia rimanda al concetto di "mettere insieme", "riunire". Questo è il caso di vere icone di una città, di una nazione, o come nel caso del Colosse, dell'intera civiltà occidentale. Gli esseri umani, oggi come ieri, si "riuniscono" intorno al monumento riconoscendosi in questo. Il monumento diviene la stessa riconoscibilità culturale di una popolazione. La stessa cosa accade per "cose" meno blasonate: un campanile di un borgo, una porta urbica, una fontana, ecc. In molto casi questi manufatti hanno un valore talmente alto, anche a livello interiore, che diviene inevitabile il citato "come era / dove era". Penso che, quindi, bisogna salvare i veri simboli di una cultura...
    Ritengo, però, che i terremoti permettano anche una nuova strada. Pensiamo, ad esempio, al tragico e devastante terremoto del Val di Noto del 1693: dalla macerie sono nate delle città tanto magnifiche da essere dei veri giardini di roccia. Vogliamo sostenere che questa non sia stata una grandiosa risposta alla distruzione di un sisma? Mi chiedo, saremmo in grado di fare lo stesso?
    Aveva ragione Platone, che affermava che "l'Anima di una città è l'Anima di chi la abita".

    Nov-Es di novarchitectura.com

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  9. Nov-Es,
    parto dalla fine "l'Anima di una città è l'Anima di chi la abita" l’anima di una città è nomade come le parole cambia connotato (significato) secondo chi la abita.
    Il ‘duomo di Siracusa’ è emblematico poiché conserva i significati che di volta in volta i ‘cittadini’ di Siracusa gli hanno dato ‘pagano, civile, religioso’ per questo motivo non esiste in natura una città ‘com’era dov’era’ ad esclusione dei parchi a tema che si sa prima o poi diventeranno dei monumenti ‘icone’ del nostro tempo.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

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  10. D'accordo
    Però non generalizziamo al contrario
    Viviamo in un'epoca in cui il sentimento affettivo ed emozionale verso la forma esteriore della città é molto sviluppato
    Il cittadino di oggi é disposto ad abitare e a riconoscersi nei cloni ricostruiti e ciò non dipende dalla consapevolezza o meno sulla falsità di un'opera
    Questo non vuol dire che non sia disposto ad accettare ricostruzioni diverse
    Il dato emozionale può portare anche ad un rifiuto
    Occorre sapere distinguere da caso a caso e tenere conto delle esigenze di chi abita o frequenta quelle città

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  11. qfwfq,
    sui cloni non sarei così netto.
    Viviamo in un’epoca di massa, dove la massa non è più quella descritta e usata dai media.
    All’interno di questa massa che esplode con il novecento (prima un piccolo gruppo oligarchico stabiliva regole, gusti e idiomi) ci sono forze eterogenee che non amano la sintesi o le categorizzazioni.
    Sulla ricostruzione ribadisco ciò che ho detto prima.
    Saluti,
    Salvatore D’Agostino

    PS: io adoro la massa quella che scalcia contro i bigotti del buon gusto.

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  12. E' vero l'architettura vive solo una volta

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    1. Anonimo,
      e si spera si rigenera su se stessa.

      Non credi?

      Saluti,
      Salvatore D'Agostino

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